Non voglio un lavoro, ridatemi il mestiere – PARTE 5
Non voglio un lavoro, ridatemi il mestiere – PARTE 5

Non voglio un lavoro, ridatemi il mestiere – PARTE 5

Aladino… Ovvero, l’affamato. Ho notato che pochissime persone prestano sufficiente attenzione a questo aspetto fondamentale della fiaba. Innanzitutto, una precisazione: mi sto riferendo alla fiaba scritta, non alla versione animata della Disney; nell’originale non ci sono limiti ai desideri e fino a quando uno è in possesso della lampada può usarla quante volte vuole.

Dunque, parlavamo della fame: Aladino ha fame e quindi la prima cosa che chiede al Genio è cibo, semplice. Riceve cibo in abbondanza, così lui e la madre possono saziarsi per alcuni giorni… Poi il cibo finisce e cosa pensi che faccia Aladino? Vende i piatti e i vassoi d’argento su cui il Genio gli aveva servito il cibo! Con i soldi guadagnati compra altro cibo e di nuovo può saziare se stesso e sua madre per alcuni giorni… Poi il cibo finisce di nuovo e cosa fa a questo punto Aladino? Naturalmente, rimane affamato per qualche giorno! Perché la sua identità è quella del povero affamato e non si sente ancora a suo agio con le possibilità del Genio.

Quando la fame torna a essere insopportabile, Aladino si fa coraggio e prova a sfregare di nuovo la lampada… La sequenza di eventi che ti ho appena descritto si ripete altre due volte! Aladino è talmente abituato a vedersi come un povero affamato che non riesce proprio a chiedere altro al genio: è come se una parte della sua capacità immaginativa fosse bloccata. Finalmente un’anima generosa svela ad Aladino che il compratore d’argento è disonesto e che gli spettano molti più soldi.

Non poteva andargli peggio: si crogiola nella gioia di avere tanto denaro e si dimentica nuovamente della lampada.

Poi un giorno accade qualcosa di meraviglioso: Aladino incontra la principessa. Per fugare ogni dubbio, la fiaba ci dice subito che la vede mentre si fa il bagno. L’amore fa il suo ingresso e Aladino scopre di poter chiedere qualsiasi cosa: smette di vedersi come un povero affamato, si stacca mentalmente dal suo passato e inizia a credere in qualcosa di più grande.

Proprio questo cambio di prospettiva gli permette di ottenere ciò che prima non riusciva nemmeno a pensare di poter chiedere: smette di credere a se stesso e inizia a credere in se stesso. Smette di identificare la propria identità col passato e inizia a scorgere infinite possibilità in tutto ciò che lo circonda. 

Ricorda:

  • le persone infelici credono ai propri ruoli, al proprio passato e alle proprie scuse
  • le persone felici credono in se stesse e continuano a sognare e a chiedere.

Generalmente, quello che mi diverto a chiamare “il metodo Aladino” consiste in tre passaggi:

  1. volere
  2. decidere
  3. chiedere

Ognuno di questi tre punti avrebbe bisogno di un saggio a se stante, ma so che dentro di te hai già capito che devi tornare a volere con pienezza, decidere cosa vuoi veramente e chiedere a te stesso/a di fare tutto il necessario per ottenerlo.

Identikit di un’altra parola… Se rileggi gli articoli della Costituzione italiana citati nella PARTE 1, soprattuto alla luce di tutto quello che hai letto finora, probabilmente proverai una certa confusione.

Se leggi l’art. 3 della Costituzione, sicuramente ti chiederai cosa è successo al mondo che ti circonda:

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dopo quello che abbiamo detto sull’autentico significato della parola “lavoro” questi articoli risultano quantomeno contraddittori; inoltre, non si capisce come sia possibile che ideali tanto belli abbiano portato le persone a essere sempre più bloccate invece di seguire l’esempio di Aladino… Come dicevo all’inizio, ritengo che il problema sia eminentemente linguistico e di conseguenza psichico e filosofico più che sociale ed economico.

Mettendo al primo posto il lavoro, è stato ucciso il mestiere. E quindi sorge spontanea la domanda: cos’è veramente il mestiere? Praticamente durante tutte le conferenze e i seminari che ho tenuto negli ultimi anni ho posto questa domanda: “da dove arriva la parola mestiere?” Invariabilmente, un buon numero di persone risponde con convinzione: “dalla maestria”. 

Invece, le cose stanno in maniera leggermente diversa. Deriva dall’antico provenzale menestier cioè servigio, carica e anche officio, nel senso di opera. Da menestier, a sua volta, deriva menestrello. E cosa facevano i menestrelli? Andavano da un castello all’altro per intrattenere le persone. E come lo facevano? Chi recitando, chi cantando e suonando, chi danzando, e così via.

Perché si spostavano di corte in corte? Perché erano molto bravi in quello che facevano e quindi i sovrani li richiedevano in continuazione. In un mondo diffusamente stanziale, i menestrelli erano liberi di muoversi perché venivano chiamati (e pagati) per fare quello che sapevano fare bene. 

Il mestiere consiste nel saper fare talmente bene qualcosa che le altre persone sono interessate a pagarti per farti fare questa cosa.

Questo modo di intendere il mestiere è prevalso per secoli e ancora adesso vediamo che lo stesso principio si applica all’arte, alla scienza e al cinema: i musicisti, gli scienziati e i pensatori vanno dove le persone li vogliono ascoltare; gli artisti, gli attori e i registi vanno dove le persone li vogliono vedere; gli atleti e gli acrobati continuano a far emozionare come millenni fa. Ci sono anche moltissimi elettricisti, medici, idraulici, massaggiatori, falegnami e avvocati che vengono chiamati perché sono bravi.

Tutto questo ci deve far ben sperare perché il mestiere può risorgere e può diventare la nostra migliore risorsa. 

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