Ascoltare per comunicare – Prima parte
Ascoltare per comunicare – Prima parte

Ascoltare per comunicare – Prima parte

Amos Tversky è stato uno psicologo cognitivo e matematico israeliano e una figura chiave nella scoperta dei pregiudizi cognitivi umani sistematici e nella gestione del rischio. Confesso subito che non ho mai letto nessuno dei suoi libri e che ho una vaga idea di cosa sia la “finanza comportamentale” di cui Tversky è considerato un padre fondatore. Uno scienziato così importante che solo la morte ha potuto negargli il Nobel. No, io di Amos ho solo letto e apprezzato una frase, trovata peraltro in un libro di Malvaldi.

“Le storie interessanti capitano a chi sa raccontare storie interessanti.”

Indubbiamente una frase affascinante, che, da modesto raccontatore di storie, mi è servita per ammantare di misticismo e magia la passione per lo scrivere.

Ma, al contempo, una frase che mi ha fatto riflettere: quali sono le storie interessanti? Da cosa si riconoscono? Da chi le riporta? Dalla eccezionalità dei fatti narrati? O dall’unicità?

Perché, così, a prima vista, si potrebbe pensare che, quelle interessanti, siano solo le storie che escono dal comune, che, magari, hanno una rilevanza che trascende epoche e generi. Io, di queste, ne ho sempre cercate e trovate. Dalla storia del militare fucilato durante le cannonate di Bava Beccaris a Milano, perché si rifiutò di sparare sulla folla, a quella di Trautmann, il portiere tedesco del Manchester City nel ’49, inviso e ingiuriato dai tifosi della squadra perché ex-militare nemico fino a che, a intercedere per lui, non fu il rabbino capo di Manchester.

Ecco. Sono queste le storie interessanti? Sì, ma non sono le sole. Io, senza falsi populismi, penso che in molte storie, anche quelle apparentemente più comuni, ci siano particolari o aspetti interessanti.

Anzi, senza mancare di rispetto a Tversky, ritengo che la sua frase possa essere riscritta in modo più “aperto”.

“Le storie interessanti capitano a chi sa ascoltare le storie”.

Perché l’ascolto è la parte fondamentale per chi vuole raccontare; difatti, come dice un altro eminente scienziato israeliano – Yuval Harari – l’evoluzione del genere umano è avvenuta grazie ai cantastorie; a chi riportava racconti e fatti avvenuti ad altri.

Certo, Non è che proprio tutto ciò che si ascolta vada a far parte della storia del genere umano automaticamente, magari scritto a lettere d’oro.
Bisogna applicare un ascolto attivo, con un po’ d’ingegnerizzazione di pezzi di conversazioni e racconti diversi, ascoltati da persone anche molto diverse tra loro. Ma senza mai perdere di vista il fatto che questo “collage” possa contribuire a raccontare esperienze umane e, cosa ancora più importante, costruire, proprio per la casualità, la semplicità dei singoli pezzi, una “persona” utile e appropriata ai fini del racconto.

E il bello è che è molto più semplice di come sembra, e, sicuramente, di come ho scritto.

Proprio per darne prova vi ripropongo una serie di conversazioni, meglio di pezzi di conversazione, e come sono stati implicati in un racconto.

Un’avvertenza, quando parlo di ascolto non mi riferisco solo all’ascolto diretto, tra oratore e ascoltatore, ma semplicemente alla nostra capacità di ritenere fatti, pezzi di storia o anche solo impressioni date da una singola frase, indipendentemente dal media utilizzato per raccoglierla, la voce dell’oratore, un film un libro letto.

Perché l’ascolto, per me, è la capacità di memorizzare e ricordare quel particolare, e usarlo quando ci serve. Quindi, più che orecchie, cervello.

Perciò a me piace ascoltare, anche se – mala tempora currunt – le esperienze personali si sono sempre più sincretizzate (guardiamo le stesse cose, mangiamo negli stessi posti, leggiamo sempre meno…) e appiattite. Ma la capacità d’ascolto implica anche la volontà (e anche l’abilità, a volte) di coinvolgere chi parla nel dire qualcosa di più, nel leggere tra le righe o nel riflettere su quanto ascoltato.

Il guidatore di autocisterna, il protagonista della storia che vi proporrò nel prossimo intervento, esiste davvero; l’ho incontrato alla stazione di servizio AGIP di Corso Giulio Cesare, a Torino, e davvero mi ha approcciato con la frase con cui inizia il racconto che leggerete. Una conversazione casuale che, al di là dell’incipit, si è poi svolta sui temi classici del lavoratore già incattivito di prima mattina e anelante di trovare colpevoli del suo malessere: il governo, le banche, i giornali e via dicendo. Un racconto sentito mille volte, e di per sé poco rilevante tra tutti, non fosse stato per la frase iniziale e, soprattutto, la “figura umana” che ne ho derivato, e che ho cercato di delineare nel racconto che leggerete.

La storia che ho scritto partendo da questo incontro non è però un semplice accostamento di altre storie, o di particolari spunti ravvisati in queste. La costruzione del racconto finale impone un po’ di ingegnerizzazione, come ho già scritto, perché per tutti noi umani la storia, a meno di finalità artistiche specifiche, deve avere un senso e, a volte, una finalità.

Quasi sempre deve trasferire, un concetto o, più frequentemente, un’emozione. Perché, altrimenti, sul comodino accanto al letto avremmo solo manuali di istruzioni. Il massimo della razionalità e della mancanza di emozioni. Ma le emozioni ci piacciono; ci coinvolgono, ci fanno crescere.

CONTINUA…

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