Comunicare per raccontare noi stessi – Prima parte
Comunicare per raccontare noi stessi – Prima parte

Comunicare per raccontare noi stessi – Prima parte

Noi siamo le storie che raccontiamo a noi stessi e agli altri riguardo a chi siamo, storie che rivediamo e rettifichiamo in continuazione e che in continuazione rivedono e rettificano noi stessi.

La frase è di John Barth, scrittore americano noto soprattutto per la sua narrativa postmoderna e metanarrante; uno stile che enfatizza la struttura dello scritto in modo tale da ricordare continuamente ai lettori che stanno leggendo un’opera di fantasia.

Perché, allora, utilizzarla come incipit quando scrivo di “parlare di noi”?

L’uso del termine fantasia potrebbe far pensare a Walter Mitty, il protagonista di “Sogni proibiti” del 1947, interpretato da Danny Kaye e narrante le avventure di un imperterrito sognatore, che si immagina protagonista di una vita molto lontana dalla sua realtà.

Che è un po’ il problema dei nostri tempi, in cui ci comunicano troppo e, di converso, comunichiamo troppo anche noi.

Per non perdere il ritmo, per apparire sempre aggiornati, per avere sempre un’opinione.

Perché tra le migliaia di messaggi che riceviamo ogni giorno, e alla sempre più difficile gestione di questi, è facile cadere nell’idea di essere, sostanzialmente, un povero Mitty qualsiasi.

E sognare, invece, di essere pienamente in grado di comprendere tutto e tutti, dal litigio tra due influencers, alle ragioni tecniche del crollo di un ponte, alle vicende geopolitiche di paesi che faticheremmo a trovare su una mappa.

Ma non ce ne rendiamo conto, perché abbiamo perso il contatto con la realtà, perché ci hanno insegnato che la vera vita, quella che vale la pena vivere, è quella di Indiana Jones.

E pensiamo che sia figo comprare un liquore perché si beve “nei peggiori bar di Caracas”.

Ma siamo così bersagliati dai troppi messaggi che riceviamo che non abbiamo il tempo per pensare che a Caracas, una delle città più povere e più pericolose al mondo, chissà che schifezze bevono nei bar peggiori, che noi per una pizza mangiata dopo le nove dobbiamo ricorrere al maalox.

No, di fantasie su di noi credo ne abbiamo già troppe.

Il rivedere e rettificare sono gli aspetti importanti nella frase di Barth, proprio perché scriviamo su di noi, ma sono altri a leggerci, il più delle volte.

E in questo interpreto la fantasia della meta-narrativa come opera di creatività, che, sempre secondo me, è il rivedere esperienze, tradurre un’azione, un particolare, in qualcosa che sia asservito all’obiettivo che ci siamo posti nello scrivere.

Si tratta cioè di “ingegnerizzare” le singole componenti del racconto perché contribuiscano a costruire la storia. Perché trasferiscano questa in termini che latri possano comprendere.

Per farlo io uso il cambiamento di punto di vista, ponendomi cioè dalla parte del lettore e cercando di soddisfare le sue esigenze, non le mie o quelle della pura cronaca del fatto riportato.

Per facilitarmi nel compito utilizzo la tecnica del “perché”, cioè chiedendomi ogni volta che cosa quell’informazione aggiunga (o sottragga, se necessario) al racconto agli occhi del lettore.

E “girando” – non ho un termine migliore – non il contenuto del fatto ma come riporto lo stesso, perché concorra al filo logico che ho impostato nel raccontare.

E, per spiegarmi meglio, utilizzerò lo scritto più apparentemente noioso, spesso angosciante, di fronte al quale, prima o poi, ci troveremo a pensare per comunicare di noi.

Il curriculum vitae.

Uno scritto di fronte al quale, generalizzando, le nostre fantasie vanno a nascondersi, per presentarci una realtà che sentiamo banale e comune a tante altre.

Ma noi vorremmo tanto risaltare, apparire migliori, più capaci, insomma distaccarci dalla pletora di persone che, come noi, sperano di presentarsi in modo interessante e appropriato al ruolo per cui ci candidiamo.

Il primo perché che mi pongo, quindi, è inerente al perché chi sta selezionando dovrebbe notare il mio curriculum.

L’elemento di distacco è, sovente, la capacità di rendere esperienze – quelle che anche altri candidati hanno avuto – in funzione non soltanto delle nostre capacità ma, soprattutto, dell’utilità che queste possono portare all’azienda.

Il primo passo nella creatività: non elencare tutto quanto si è fatto ma presentarlo come raggiungimento di possibili obiettivi aziendali. Meglio, di capacità utili all’azienda.

Questo ci rende affini alla prima necessità del lettore: capire immediatamente in cosa noi potremmo servire all’azienda e quali ruoli potremmo ricoprire, invece di lasciarlo ad immaginare che, se in carriera abbiamo fatto questo, forse potremmo fare al caso anche per lui, per la sua azienda.

Il passo successivo è quello di raggruppare esperienze che, per la nostra natura umana, o perché nei CV vale la regola di datare tutto, tendiamo a presentare singolarmente.

Qui l’obiettivo è di dimostrare che, in carriera, abbiamo acquisito una visione “progettuale” e non semplicemente quella funzionale (ho fatto questo in questo periodo, poi ho fatto questo l’anno successivo).

È, forse, l’aspetto più difficile, perché le organizzazioni umane sono asservite ad un organigramma che, sovente, non rispecchia personalità e percorsi di crescita.

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